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maneggiami con cura

maneggiami con cura è un work in progress che raccoglie una serie di lavori pensati per destinazioni specifiche e fatti a mano dagli artisti a partire dal 2013.

Il progetto consiste in una serie lenzuola matrimoniali su cui gli artisti hanno stampato a mano con la tecnica dello stencil delle frasi tratte da testi di autori vari.

Per Luca e Loredana

Soho House, Berlin 14 giugno 2013

Le lenzuola sono state fatte per amici degli artisti come regalo di nozze.
Ogni set di lenzuola è un pezzo unico, su cui vengono stampate frasi diverse scelte apposta per le persone a cui il lavoro è destinato.

Questi pezzi non possono essere comprati, sono un dono che gli artisti fanno ad altri e che viene loro offerto tramite una sorta di performance privata, di cui rimarrà visibile solo una traccia.

per Geraldina e Sandro

Prafilippo, 5 luglio 2013

Parte del progetto consiste infatti nell’usare le lenzuola (ad insaputa dei destinatari dell’opera) per fare il letto dove gli sposi dormiranno la loro prima notte di matrimonio.

per Silvia e Alessandro

Lipari, 24 giugno  2016

Muovendosi sul precario confine tra pubblico e privato, tra noi e l’altro, tra biografia e autobiografia, Mocellin e Pellegrini riflettono sul lato emotivo e conflittuale delle relazioni umane percorrendo una traiettoria insolita: maneggiami con cura è un progetto pensato da due persone e destinato ad un pubblico di due persone.

L’intento, come in molti altri progetti, è quello di creare, attraverso la pratica artistica, un’area du scambio legata alla sfera dell’emotività in cui l’arte possa assumere il valore di un dono ed un dono possa divenire opera.


blind walk

Blind Walk è un progetto ideato per la sezione Eventi Collaterali de Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza. Manifesta 12, Palermo. Il lavoro nasce da una collaborazione con Santo Graziano e Peppino Re, due amici palermitani ciechi dalla nascita. Si tratta di un racconto sonoro in forma di audio guida, scaricabile su smartphone, da ascoltare attraversando i luoghi descritti. 

Visita il progetto online

Questo racconto è il risultato di una serie di interviste registrate prima della manifestazione, che sono state poi trascritte, montate e rilette dagli artisti stessi.

Il percorso parte da Piazza Magione, accanto al Teatro Garibaldi, quartier generale e biglietteria di Manifesta12 e termina all’Albergheria, passando per i luoghi dove i due protagonisti della storia abitavano durante gli anni dell’università.

Accompagnandoci per mano in un viaggio attraverso l’oscurità, Santo e Peppino ci offrono due punti di vista speciali per aiutarci a riflettere sulla conoscenza del mondo e la consapevolezza di noi stessi.

Nel parlarci delle loro vite, del loro modo di sognare, ricordare e percepire, le due voci narranti ci svelano una Palermo personale e fuori dagli schemi, dove i ricordi della vita universitaria e della lotta politica si sovrappongono all’esperienza del quotidiano; dove la percezione dell’arte si mescola a quella della notte e dove, soprattutto, il problema dell’assenza della vista si risolve nella presenza di una ricchezza di stimoli e codici attraverso i quali è possibile comprendere il mondo che ci circonda.


Un mio caro e vecchio amico non vedente ha da tanti anni un bravissimo cane, che ha perduto anche lui la vista, e ora si guidano a vicenda è il titolo della seconda parte del progetto che consiste in una serie una serie di visite guidate (per vedenti e ipovedenti), condotte da Santo Graziano e Peppino Re alla sezione Garden of Flows di Manifesta 12, situata nell’Orto Botanico di Palermo.

La collaborazione con Santo Graziano e Peppino Re nasce nel 2006 con il progetto la città negata 


Unbroken lullaby

unbroken lullaby è un’installazione site specic, progettata per Palazzo Martinengo ed ideata in relazone alla memoria storica del luogo, costruito in epoca medioevale su una serie di stratificazioni archeologiche.
Il progetto, informato da un’accumulazione di tracce di vita quotidiana, si inspira principalmente alla scoperta delle ceneri di un bambino, la cui sepoltura risale all´età del ferro.
Un lettino in tubi in ferro, la cui struttura si estende, dopo e prima di aver disegnato la culla, fino a raggiungere il luogo della sepoltura.
Una fonte sonora situata ad un‘estremità dei questo percorso di tubi, riproduce il canto di una ninna nanna, che, viaggiando attraverso lo spazio all’interno dei tubi, viene trasmessa sopra il luogo dove si trovano le ceneri.
La struttura del tipico lettino a sbarre, che nella quotidianità serve come protezione per il piccolo da eventuali cadute notturne, è qui realizzata con i tubi di ferro che evocano l’immagine di una gabbia, rappresentando cosí la dimensione emotiva della fatica e l’incertezza legata al ruolo genitoriale.
Le ninne nanne sono espressioni molto antiche, considerate da alcuni la prima forma di musica esistita, esse sono simili tra loro nelle diverse culture ed epoche, soprattutto per quanto riguarda i toni e il modo di cantare. Un canto ripetitivo, con un carattere poetico e al contempo triste.
Il senso di questo canto è anche quello di aiutare una madre (un genitore) a dare voce alle preoccupazioni, cantando la propria fatica e compiendo in questo modo un gesto terapeutico non solo per chi ascolta, ma anche per chi canta.
L’intento del progetto è quello di rendere omaggio, con questo poetico, al piccolo sepolto all’interno del palazzo, ma anche quello di creare, con il canto, un ponte che attraversi i secoli per raggiungere il bambino in vita, il bambino cioè che visse, oltre che morire, in questi luoghi.
Il lavoro riflette inoltre sulla condizione materna, che nonstante il trascorrere del tempo e il progresso, è rimasta essenzialmente invariata.

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ecco il guaio delle famiglie …

ecco il guaio delle famiglie
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Installazione site-specific e performance prodotte per la mostra “Questioni di famiglia” CCC Strozzina, Firenze, 2014.

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Nato da una riflessione sulle dinamiche famigliari con un’attenzione particolare alla questione dei non detti, del senso di colpa e della rimozione, questo progetto consiste in un’installazione composta da oggetti, immagini, tracce sonore e un intervento performativo. L’installazione consiste in una sorta di ambiente domestico decontestualizzato e ricreato all’interno dello spazio espositivo, in cui alcuni oggetti di uso comune sono affiancati ad immagini di oggetti disegnate a parete e ad oggetti (disegnati oppure reali) la cui funzionalità è inesistente o non più integra. L’insieme di questi elementi crea uno spazio che è allo stesso tempo accogliente ed inquietante, dove poter sostare per ascoltare dei frammenti di storie. Questa stratificazione di segni sottolinea la complessità dei rapporti e della comunicazione emotiva, che non è quasi mai semplice e diretta. Il lavoro è quindi inteso anche come area di sosta, luogo d’ascolto e di riflessione, dove diversi elementi si intrecciano per creare una narrazione complessa e sfaccettata, in cui frammenti di racconti privati vengono svelati in un luogo pubblico e dove poter prendere parte ad una performance.  

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I racconti che compongono le 3 tracce sonore presenti nell’installazione sono tratti da una serie di interviste sul tema della comunicazione all’interno della famiglia fatte ad alcuni membri dello staff del museo. Le interviste, trascritte e rilette dalla voce dei due artisti, sono rimontate per creare 3 apparenti dialoghi che ad un ascolto più attento si rivelano essere coppie di monologhi in cui le due voci si alternano e si interrompono a vicenda per riprendere il filo del discorso appena l’altro smette di parlare. Proprio come spesso accade in famiglia, sono due voci che parlano da sole senza prestare attenzione a quanto detto dall’altro. L’insieme delle tre tracce, situate in tre punti precisi dello spazio, forma una sorta di brusio confuso, che diventa comprensibile solo se ci si avvicina ad una postazione piuttosto che a un’altra. Una proviene dal tavolo da pranzo e si ascolta sedendosi attorno ad esso, la seconda è trasmessa da una radio situata davanti alla parete su cui è disegnata la libreria capovolta e la terza proviene dal giradischi appoggiato al tavolino di fronte al divano.

 

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Una quarta postazione consiste in una poltrona situata accanto un tavolino su cui è posto un telefono funzionante. Ad intervalli irregolari durante il periodo di apertura della mostra, il telefono squilla, mettendo in contatto diretto una persona del pubblico con uno degli artisti che telefona da casa sua per raccontare una storia legata al proprio vissuto famigliare, oppure per ascoltarne una. Questa performance non è documentata in nessun modo e gli artisti non conoscono l’identità di chi risponde al telefono. Lo scambio che avviene è quindi del tutto anonimo e casuale. Il pubblico che visita la mostra viene però informato del fatto che il telefono potrebbe squillare e chiunque lo desideri può rispondere alla chiamata. Questo atto performativo per una sola persona, complica ulteriormente la trama del racconto, rimettendo in scena la dinamica del dialogo (o del doppio monologo) attraverso una conversazione privata che ha luogo tra due persone che non si conoscono. La performance è anche intesa come strumento utilizzato dagli artisti per mettessi in gioco in prima persona, raccontando un pezzo di storia personale.

 

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I mobili utilizzati per l’installazione provengono quasi tutti dalla casa degli artisti, che, portando una parte di casa loro nel museo, si interrogano sul confine tra privato e pubblico, arte e vissuto personale, oggetto d’arte e oggetto di uso comune.

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CRASH

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Installazione site-specific. Hotel Locarno, Roma, 2013

 

 

 
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Ogni luogo, che sia esso apparentemente anonimo o fortemente connotato, racchiude tra le sue mura una memoria di sé.

 

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Questo progetto nasce dal desiderio di fare della demolizione di un albergo un’opera d’arte, per metterne in luce la storia nascosta e rivelare relazioni inaspettate. Sospeso su un confine tra pubblico e privato, tra movimento e staticità, tra luogo e non luogo, l’hotel è un posto dove si vive in modo altro da come si vive a casa. Nonostante ciò alcuni alberghi possono diventare, per qualcuno, una casa. Il Locarno, con le sue stanze tutte diverse l’una dall’altra e la sua storia, è sicuramente più “casa” di altri.

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Ma un hotel è soprattutto un luogo di passaggio. L’idea di transito, di non permanenza, che riflette in un certo senso la natura umana, è sempre una caratteristica di questi luoghi e benché i muri dell’albergo siano sempre gli stessi, al loro interno si sono consumate molte storie, anche se forse ad occhio nudo è difficile vedere le tracce di ciò che è accaduto.

Con lo sguardo duplice di chi è abituato a osservare il mondo da un altro punto di vista, gli artisti hanno cercato di trovare alcune di queste tracce e farle affiorare in superficie.

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Crash, installazione composta di muri e oggetti d’arredo esistenti, tracce sonore e oggetti progettati ad hoc e situata nello spazio decontestualizzato dell’hotel in fase di ristrutturazione, riflette dunque sulla natura precaria dell’esperienza umana. L’installazione è in bilico tra il desiderio liberatorio di spaccare tutto per creare qualcosa di nuovo e la volontà di preservare una memoria: frammenti di storie, suoni, suggestioni, che compongono una narrazione a più voci, spezzata e circolare al tempo stesso.

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All’interno delle camere sventrate ma ancora ricche di arredi, i telefoni squillano invitando il visitatore a rispondere, per ascoltare di volta in volta una storia diversa. Questi racconti, raccolti intervistando le persone che da anni lavorano all’albergo e le proprietarie, sono stati poi rielaborati dagli artisti per creare testi nuovi e riletti dal vivo da alcuni membri dello staff dell’hotel.

Parte del progetto è anche CrashCamera video che non è una documentazione dell’installazione, ma un lavoro autonomo nato da una riflessione sulla relazione tra narrazione ed architettura, la natura transitoria della vita e la difficoltà di comunicazione che caratterizza molte relazioni umane.

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Some kind of solitude is measured out in you …

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Performance e installazione site-specific progettata per la mostra “Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte italiana contemporanea”, MAMbo 2013. Il progetto nasce dal desiderio di entrare in relazione con il museo non solo come spazio, ma anche e soprattutto come luogo abitato da persone che qui lavorano ogni giorno e che lo fanno funzionare, in quanto sito di produzione culturale, come servizio per la collettività. 

Partendo da una metodologia partecipativa per loro consueta, gli artisti hanno intervistato otto donne che lavorano nel museo e che hanno acconsentito a prendere parte al lavoro, raccontando le loro difficoltà nella relazione con l’altro sesso. Le interviste sono state poi trascritte e montate, creando un lungo testo in cui le storie si seguono diventando un’unica voce, che racconta un po’ delle difficoltà che le donne hanno, nel dialogo con il genere maschile. 

Il giorno di apertura della mostra questo testo è stato restituito al pubblico con una performance che trae ispirazione dall’immagine di copertina del libro “Vai pure, dialogo con Pietro Consagra” di Carla Lonzi. 

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Seduti attorno ad un tavolo una di fronte all’altro, Ottonella legge il testo a Nicola che non risponde e disturba la lettura spegnendo la luce che illumina il tavolo e portando la stanza a una condizione di buio. Per proseguire nella lettura Ottonella deve continuare a riaccendere la luce. L’azione continua così, in un’alternarsi di luce e buio, parole e silenzio, ove la richiesta d’ascolto da parte della voce femminile viene continuamente frustrata dall’azione di disturbo dell’uomo, che oscurando la stanza rende immediatamente visibile il suo rifiuto all’ascolto, così spesso lamentato dal genere femminile.

Ma l’oscurità in cui cade la stanza si riferisce anche alla difficoltà di comprensione reciproca che da sempre caratterizza, oltre al dialogo con l’altro, la comunicazione tra uomini e donne.

“Some kind of solitude is measured out in you, you think you know me, but you haven’t got a clue”, parla quindi anche della consapevolezza della reciproca impossibilità di capirsi fino in fondo. Consapevolezza che non è però intesa come rinuncia, ma come presa di conoscenza dei propri confini. 

L’azione si svolge in uno spazio connotato, che, una volta finita la performance, conserva le tracce di quanto è accaduto. Un tavolo con due sedie, alcuni oggetti di uso quotidiano che ricordano la natura della relazione, una decorazione a parete creata dagli artisti per illustrare metaforicamente gli otto racconti, una voce registrata, la luce ed il buio.

Una rosa sempre fresca al centro del tavolo mantiene vivo lo spazio dello scambio e ne ricorda la spinosità.

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Vai pure, Berlin 2013

 

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Some kind of solitude.. Rehearsal exerpts


allontanati da me

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2011

Video a canale singolo, colore suono, 8 minuti circa

allontanati da me esplora la tensione tra desiderio di indipendenza e bisogno dell’altro, che caratterizza ogni relazione amorosa. All’impossibilità di capirsi nel profondo, si contrappone la necessità di affrancarsi dal legame affettivo per mantenere integra la propria identità.

In un’ottica secondo cui “la categoria di identità personale postula sempre come necessario l’altro”, il video affronta in maniera semplice e cruda la dicotomia unione/separazione come la tensione cardine di ogni relazione.

Il video inquadra dall’alto due mani intente a preparare una composizione floreale. All’indizio della sequenza vediamo un vaso vuoto e un gruppo di rose, adagiate senza un ordine preciso su una superficie nera, attorno ad esso. Lentamente le mani cominciano a lavorare, prendendo le rose, accorciandone gli steli e levando le foglie in eccesso per deporle infine nel vaso. Alla fine della sequenza il mazzo è composto e le mani escono dall’inquadratura.

Osservando attentamente questo gesto apparentemente banale, che rimanda alla tradizione dell’ikebana e trasmette una sensazione di tranquillità, ci si rende conto che le due mani non appartengono alla stessa persona ma ad un uomo e ad una donna.

Il commento sonoro è formato da un montaggio di rumori di oggetti domestici che cadono e si rompono, e dal suono delle voci di uomo e di donna che parlano all’unisono recitando, come in un mantra spezzato, una serie di frasi sulla difficoltà della relazione amorosa. Queste frasi, sussurrate in maniera ritmica, sono tratte principalmente da due film: À bout de souffle, di Jean Luc Godard e Hiroshima mon amour di Alain Resnais. I due film che hanno segnato l’inizio della nouvelle vague, riflettono, benché in maniera diversa, sulla profonda relazione tra amore e morte che alimenta ogni rapporto di coppia. Il primo affronta la paura del coinvolgimento emotivo ed il desiderio di indipendenza dei protagonisti, mentre il secondo, oltre ad essere un durissimo commento sulla strage atomica e sulla guerra, affronta in maniera poetica i temi dell’oblio e dell’elaborazione del trauma. Alle voci sussurrate si aggiunge un montaggio di spezzoni sonori tratti dagli stessi film in lingua originale.

L’azione lenta e ripetitiva del comporre il mazzo, catturata in questa sequenza ipnotica, accompagna il fruitore verso la dimensione dell’ascolto, che diventa, come in molti lavori di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, la dimensione privilegiata e più densa di diversi significati. D’altra parte, solo la relazione tra immagine e suoni trasmette il senso di difficoltà di cui parla il lavoro. Mentre le mani che compongono il mazzo con gesti rassicuranti, creano un ordine dal disordine e cercano l’unione tra maschile e femminile e le voci parlano all’unisono cercando un’armonia,  i suoni ed il testo parlato raccontano di una rottura. La discrepanza tra immagini e suoni intende scardinare alcuni stereotipi legati alla comune percezione dell’universo domestico.

Il progetto comprende anche una serie di scatti fotografici che, con lo stesso stratagemma, affrontano il tema della relazione attraverso la rilettura di una serie di gesti quotidiani spesso attribuiti ad una condizione di genere.

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Messico famigliare

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Il mito della famiglia ideale è sempre frutto del pensiero delle classi molto conservatrici. In realtà non esiste la famiglia ideale, ma esistono famiglie diverse.

Fondazione Merz, Torino 2010

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Con Messico famigliare, gioco di parole con Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, che nel 1963 pose al centro le relazioni espressive interne alla famiglia, gli artisti portano la riflessione sulla relazione tra esotico e famigliare e affrontano il tema complesso e delicato della famiglia nella società italiana contemporanea. Partendo da un’analisi che trae spunto dal confronto tra la memoria delle proprie origini e la loro recente esperienza di genitori adottivi, gli artisti si interrogano inoltre sulla natura della famiglia “mista” che si confronta con il contesto sociale di un paese che dimostra sempre più diffidenza verso la diversità.

Il modo in cui ci piacerebbe affrontare la mostra è quello di considerarla come una sorta di lettera a nostra figlia, nella quale raccontare un poʼ di noi stessi, del nostro passato, della società in cui viviamo, del nostro lavoro di artisti.

(Ottonella Mocellin – Nicola Pellegrini)

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Un gruppo di bambini e bambine in età prescolare viene coinvolto attivamente alla realizzazione dell’opera d’arte, attraverso una serie di laboratori condotti dagli artisti stessi insieme al Dipartimento Educativo della Fondazione.

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Il laboratorio, dal titolo Little boxes, è inteso come parte integrante e cuore pulsante della mostra e lo spazio in cui si svolge si modifica progressivamente. L’idea è quella di considerare la mostra non come un progetto finito, ma come un processo vivo e aperto a differenti possibilità e molteplici interpretazioni.

I bambini e le bambine, invitati a riflettere sull’idea di casa e sul loro rapporto con lo spazio domestico, raccontano così la loro quotidianità famigliare, progettando e decorando ognuno una casetta di cartone.  Alla fine degli incontri ogni bambino e bambina porterà con sé la propria casetta, come ricordo ed appropriamento del processo artistico condiviso. Il lavoro svolto durante i 6 incontri è esposto al pubblico in un finissage in cui è stato presentato il catalogo della mostra.

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Al piano terreno della Fondazione, insieme al laboratorio, si trova l’installazione Messico famigliare: una struttura rovesciata e adagiata al suolo, ingrandimento della classica casa giocattolo dei bambini, composta da 4 pareti e un tetto spiovente.

La casa rovesciata, nella sua instabilità e precarietà, è intesa come metafora, nonché critica dell’idea tradizionale di famiglia, che spesso viene rappresentata all’interno delle solide mura domestiche.

Questa casa caduta, simbolo che rimanda al mondo dell’infanzia, è composta da pannelli di plexiglass specchiato all’esterno e dipinto di rosso all’interno. Sulle sue pareti sono incise a mano dagli artisti una serie di frasi cariche di luoghi comuni e pregiudizi legati al tema dell’adozione, che riflettono in maniera semplice e diretta i pregiudizi del pensiero comune.

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All’interno della struttura, una vecchia fonovaligia suona un vinile su cui è inciso un racconto sul tema dell’adozione con la struttura di una fiaba.

La contrapposizione tra esterno e interno da luogo ad una riflessione sulle problematiche legate alla formazione dell’identità, sulla questione genitoriale, sull’inserimento di un bambino di origine straniera e con tratti somatici differenti in una famiglia adottiva e in un contesto sociale che ha dimostrato di non essere sempre aperto alla diversità.

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Nello stesso spazio si trovano altri due tasselli del progetto, tracce riemerse dal lessico famigliare personale dei due artisti.

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Cosa volete bambini, Gas? Un’insegna luminosa che cita una frase detta soprappensiero dalla madre di Nicola a lui e suo fratello quando erano bambini.

Grazie per gli auguri, lightbox raffigurante il macabro autoritratto di una donna impiccata, fatto dalla madre di Ottonella a Natale del 1987. Sul disegno è leggibile la frase: ai miei figli, grazie per gli auguri, Natale 1987.

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In fondo alla scala che porta al piano interrato è posizionato un tappeto luminoso calpestabile che cita una delle prime frasi detta dalla figlia degli artisti: qui buio c’è perché? La frase è scritta sullo sfondo di un immaginario cielo stellato composto dall’unione delle costellazioni dei 3 membri della famiglia. Nell’immagine appare anche il disegno dei piedini della bambina, fatto a 4 mani con il padre. Questa sorta di cielo capovolto, che porta lo sguardo verso il basso, introduce, con una domanda semplice ma che rimanda ad una condizione esistenziale, l’intera installazione del piano interrato.

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Sulla parete di fronte si trova la video installazione dal titolo Generalmente le buone famiglie sono peggiori delle altre. Il video, un montaggio di filmati d’epoca delle famiglie dei due artisti, è pensato come un racconto per immagini e parole ma anche vuoti e silenzi.

E’ un viaggio nella memoria, fatta di ricordi confusi e frammentati che riaffiorano dall’inconscio come un sogno, un’eredità affettiva da tramandare alle generazioni future.

Il lavoro nasce da una riflessione sulla complessa relazione tra memoria, ereditarietà, lascito e mortalità e sul motivo inconscio che spinge l’essere umano a diventare genitore. Il video intende inoltre indagare il complicato rapporto tra eredità biologica ed affettiva, questione imprescindibile nelle famiglie adottive o allargate.

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All’ingresso della fondazione, come memoria del lavoro laboratoriale svolto dagli artisti, sono proiettate a terra due immagini composte da una serie di frasi e disegni risultati da un laboratorio sulla città, realizzato con un gruppo di bambini e bambine della scuola dell’infanzia per il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone.

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Dopo aver partecipato a Little Boxes i bambini e le bambine della scuola dell’infanzia Borgo Crocetta in collaborazione con il Laboratorio Immagine2 di Torino, hanno realizzato un video in decoupage dal titolo I traslochi di Rosa Dao, in cui hanno raccontato la loro versione della storia di famiglia degli artisti.  Il lavoro, che non è parte del progetto messico famigliare, è la traccia dell’intenso scambio nato tra gli artisti e i membri più piccoli della comunità.


Gita al faro

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Performance e video a canale singolo, colore suono.

La Spezia, 2009

Gita al faro è parte di una serie di progetti nati dalla collaborazione (sotto forma di laboratorio) tra gli artisti e diversi gruppi di bambini.

Per questo progetto i due artisti hanno tenuto un laboratorio di tre settimane sulla città, con un piccolo gruppo di bambini di La Spezia di circa sette anni. Il fine ultimo del laboratorio era la creazione di una sorta di video guida della città raccontata dal  punto di vista dei bambini.

L’idea di cedere parte del controllo sul progetto ai propri collaboratori, tipica della pratica artistica di Mocellin e Pellegrini è qui espressa e visualizzata dal fatto che i due artisti girano per la città bendati, affidandosi completamente alla guida dei bambini.

Nel rimettere in scena questo gioco della loro infanzia i due artisti si interrogano sulla fiducia nell’altro, sul cedere, sul dare ad un altro la responsabilità delle proprie azioni oltre che sulla complessa relazione tra vedere e ascoltare, buio e paura.

La performance, messa in atto durante la seconda settimana di laboratorio, durante il quale i bambini erano incoraggiati a riflettere sulla loro città, consiste in un’azione che ha avuto luogo nello spazio pubblico del territorio cittadino, dove i passanti incappavano in questa strana e inaspettata visione per caso.

Attraverso questo processo di affidamento reciproco i bambini hanno provato a guardare la città come non la avevano mai guardata prima, mentre gli artisti hanno provato ad immaginarla attraverso questa audio guida vivente, fatta dai suoni del paesaggio urbano e dalle voci dei ragazzini.

Dal progetto è nato un video che non è una documentazione della performance, ma un lavoro che vive di vita propria, in cui alle immagini della gita si sovrappone un racconto corale e poetico composto alle voci degli artisti e dei loro giovani accompagnatori, mescolate a frammenti di musiche e suoni.

Il risultato di questo gioco dei riflessi e di scambio di identità è un video che racconta questa surreale passeggiata dalla Ludoteca al faro, dove inizia il mare e finisce la città.


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